RASSEGNA STAMPA

IL SECOLO XIX - Un processo difficile, tra diritto ed emozioni

Genova, 13 novembre 2008

Un processo difficile, tra diritto ed emozioni
a sette anni dai fatti
Ultima rivelazione di Bertinotti: «De Gennaro mi disse quella notte: "La sede del Social Forum" non è una ambasciata"»

marco menduni

CERTO, l'odore del sangue si è ormai dissolto dopo sette anni. Rimane quello delle carte da tribunale, dei faldoni polverosi traboccanti di documenti, delle registrazioni delle testimonianze che descrivono quei minuti (tre? cinque? non di più) di delirio. Il blitz alla scuola Diaz, epilogo sciagurato di un G8 sciagurato.
I giudici hanno già deciso sugli scontri di piazza (condanne severissime per gli insurrezionalisti nostrani, soft per i no global degli scontri che precedettero la morte di Carlo Giuliani) e sui fatti della caserma di Bolzaneto (nessuna tortura, come sostenuto fino allo sfinimento dal mondo antagonista, e pene decisamente al ribasso rispetto alle aspettative dell'accusa); ora tocca alla Diaz. Una strana euforia si è impadronita nelle ultime ore tra i difensori degli imputati. Convinti che, «se dev'essere applicata la legge, finirà con una valanga di assoluzioni». E non perché i fattacci non siano avvenuti. Ma perché, sono convinti, «non è stata dimostrata la responsabilità personale di nessuno». I picchiatori della Diaz non hanno mai avuto un nome. Ed è difficile affermare che sia emerso, durante il processo, un disegno preciso, preordinato e consapevole, da parte di qualcuno, dei superiori. E persino la contestazione, ai responsabili dei reparti, di "non essere intervenuti per evitare i reati" si scontra con un'evidenza processuale. L'unico che ammette di aver assistito a scene di violenza è Michelangelo Fournier (quello della «macelleria messicana») che peròè intervenuto sì, gridando «basta» ai poliziotti picchiatori. Sul piano del diritto è questo un processo difficile. Perché deve tenere insieme le esigenze della legge, che a volte si scontra duramente con le aspettative delle vittime. Deve in qualche modo rispondere all'enorme emozione destata dagli avvenimenti di quella sera: se sugli scontri avvenuti sulla strada e persino su Bolzaneto potevano esserci letture variegate, non esiste dubbio che la Diaz sia stata una della pagine peggiori scritte dallo Stato negli ultimi decenni. Ma deve soprattutto affermare, e in questo sta la portata epocale di questo processo, se per una vicenda di questo genere dev'essere colpita tutta la catena di comando che sta sopra a chi ha impugnato il manganello oppure, secondo un'altra lettura giuridica, la "colpa" stia solo nella persona che, materialmente, in un preciso momento, ne ha ferita un'altra inerme. E, a catena, se la falsificazione delle prove (le finte molotov, la coltellata all'agente Nucera) sia stata voluta, cercata, in qualche modo strutturata o, come hanno sostenuto i difensori, frutto solo dell'immenso caos che si era creato in quella situazione.
Certo, un passo indietro può essere utile per comprendere i giorni immediatamente successivi al blitz. Il primo a parlare è l'ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, al Tg5, il 25 luglio 2001: «La polizia è stata aggredita con un lancio di pietre e di altri corpi contundenti dal tetto e dalle finestre della scuola. È stata usata la forza solo per rispondere alla violenza. Non dimentichiamo che 17 poliziotti sono rimasti feriti». Claudio Scajola, allora ministro dell'Interno, spiega il 26 luglio al Secolo XIX: «Non ero stato avvisato della perquizione nella scuola. Ma è normale che operazioni di polizia giudiziaria vengano gestite sul territorio dal personale locale. Guai a credere che ci siano luoghi inviolabili per l'ordine pubblico, anche perchéè noto che in quella sede sono state trovate bombe molotov, armi improprie e alcuni importanti esponenti di organizzazioni estere già noti alle polizie europee per atti di violenza». Lo stesso concetto, si apprende ora, fu espresso dal capo della polizia in una telefonata la notte della Diaz al segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti: «Cosa vuole che faccia, quella non è un'ambasciata... Non c'è extraterritorialità. Quello che sta avvenendo è una sorta di controllo del territorio. Non mi può chiedere una protezione come fosse un'ambasciata».
Il giorno successivo il premier Silvio Berlusconi gioca d'anticipo: «Se abusi e violenze saranno individuati da Viminale e magistratura, non ci sarà alcuna copertura per chi ha violato la legge». In quei giorni l'inchiesta dei pm genovesi era già decollata. Ma la prima "sentenza" arrivò invece proprio dal governo. Trasferiti ad altri incarichi l'allora questore Francesco Colucci, il vicecapo vicario della polizia Ansoino Andreassi e il capo dell'antiterrorismo Arnaldo La Barbera, dopo il rapporto degli ispettori del Viminale. Vista oggi, e per motivazioni diverse tra le varie posizioni, la scelta appare meno "pelosa" di quanto sembrasse allora. Nel frattempo i maxi-processi sono giunti al loro termine. Manca solo la Diaz. Sentenza oggi, una sentenza che segnerà una pietra miliare nel diritto.